di Enrico Bucci, link al testo originale qui e qui
Durante un’epidemia, un numero in particolare conta moltissimo: si chiama tasso netto di riproduzione, e si indica con R0 (in inglese, basic reproduction number).
È il numero di individui che, in media, sono contagiati da un singolo paziente infetto.
Si capisce quindi subito che, più è alto R0, peggiore sarà l’epidemia, in termini di individui totali infettati e di rapidità di propagazione del virus.
Ma cosa possiamo fare per diminuire R0?
Vediamolo insieme. Chiamiamo B il numero di contatti giornalieri di un individuo infetto che portano a nuovi contagi e C il periodo di tempo medio (in giorni) durante il quale un individuo infetto è contagioso.
Per definizione, si ha:
R0 = B X C
Cioè il numero medio di individui contagiati da un paziente infetto è pari al numero medio di contatti infettivi al giorno per il numero di giorni in cui il paziente è infettivo.

A questo punto, è facile comprendere che, per diminuire R0, e quindi rallentare o bloccare l’epidemia, dobbiamo:
- diminuire B, cioè diminuire il numero di contatti giornalieri di ogni individuo potenzialmente infettivo
- diminuire C, cioè diminuire il numero di giorni in cui un individuo infetto può contagiare altri
Il primo punto implica la quarantena di tutti coloro che siano potenzialmente infetti. Se “potenzialmente infetti” equivale a sintomatici, di tutti coloro che manifestano sintomi compatibili con l’infezione; se invece, come nel caso del coronavirus SARS-CoV2 si ha il sospetto che anche individui asintomatici possano essere portatori del virus e contagiosi, allora non resta che la quarantena su base geografica e di vicinanza ad individui certamente contagiati. La quarantena agisce sul numero di contatti; per diminuire B, cioè il numero di contatti giornalieri che portano a contagio, possiamo anche rendere più difficile un “contatto efficace” da parte del virus, seguendo quelle poche indicazioni che ministero e OMS hanno dato (starnutire nell’incavo del gomito, lavare accuratamente le mani eccetera), utilizzando presidi sanitari quali le mascherine (per i soggetti potenzialmente infetti) e di protezione per gli operatori sanitari o comunque implicati nel contenimento (tute e mascherine).
Il secondo punto implica l’isolamento stretto dei pazienti infetti (e quindi certamente contagiosi); ovviamente, poiché raramente li si isolerà fin dal primo giorno della loro contagiosità, è possibile solo diminuire C, mai azzerarla completamente.
Agire su B e su C, cioè usare in modo appropriato i presidi sanitari e seguire le avvertenze OMS, ma soprattutto attuare quarantena e isolamento, può portare il valore di R0, cioè il numero medio di individui contagiati da ogni soggetto infetto, al di sotto di 1; il che, anche se non con effetto immediato, azzera l’epidemia.
Panico, disordine, cattiva coordinazione e scarsa collaborazione dei cittadini sono tutti elementi che, invece, portano ad aumentare in particolare il numero B; le persone, quando hanno paura, attuano infatti comportamenti di accaparramento (diminuendo per esempio la disponibilità dei presidi sanitari laddove servirebbero) e, se le misure di contenimento non sono attuate in maniera controllata ed ordinata, tendono ad avere maggiori contatti tra loro di quanto si dovrebbe (soprattutto tra familiari, ma anche per procurarsi il necessario in assenza di piani ed indicazioni chiare).
Fiducia nelle nostre istituzioni, nei medici e nel sistema sanitario nazionale aiutano a coordinare le misure necessarie, e dunque a diminuire efficacemente B e C.
Conoscere R0, B e C aiuta a capire la ragione delle misure di contenimento e delle restrizioni imposte, a ragionare con calma e ad organizzare sul territorio ciò che serve in maniera ottimale.
È tutto qui, nella semplicità di due numeri, il segreto per contrastare un virus per il quale non si dispone ancora di farmaci o vaccini.
Vale la pena di occuparci di un secondo numero, di cui abbiamo anche in questo caso parzialmente discusso in precedenza: la letalità del virus o in inglese case fatality rate, vale a dire la probabilità che un soggetto, una volta infetto, muoia.
Ricordiamo innanzitutto le basi: la letalità è uguale alla percentuale di pazienti morti, calcolata sul totale dei soggetti infetti.
Detta così, sembra semplicissimo calcolare questo parametro, e capire quindi, per esempio, quanto sia pericoloso il nuovo coronavirus SARS-CoV2 per un paziente che sia stato infettato.
In realtà, ci sono diverse complicazioni, che aumentano l’incertezza e che devono essere ricordati, prima di accettare qualunque “numero magico” che ci dica quanti morti ci sono per ogni 100 individui infetti.
Incertezza sulla stima: parliamo, quindi, innanzitutto di questa.
Come abbiamo già visto, persino nel caso in cui il monitoraggio in tempo reale di un’epidemia fornisca dati di ottima qualità, il semplice ritardo tra infezione ed eventuale morte di un paziente fa sì che, se si cerca di ottenere al tempo t la letalità a partire dai dati di popolazione inerenti al numero di pazienti morti e al numero di casi noti, si ottiene una forte sottostima della reale letalità, sottostima che tende a diminuire man mano che ci si avvicina alla fine dell’attività del focolaio epidemico considerato.
Intendiamoci: sebbene a chi pratica altre discipline la cosa possa sembrare strana, questo fatto è da tempo noto a biologi, epidemiologi ed esperti di virus, che hanno mostrato più volte, anche con casi reali, come all’aumentare del ritardo tra infezione ed eventuale morte, la sottostima della letalità cresce, in buon accordo con i modelli.1
Ora, si consideri che, nel caso di ogni nuovo virus, il ritardo tra infezione ed eventuale decesso non è noto inizialmente; per questo, quando scoppia una nuova epidemia, ammettendo pure che una proporzione costante dei casi infetti e delle morti sia riportata con accuratezza, qualunque calcolo naïve della letalità, non potendosi tener conto del ritardo menzionato perché esso non è noto, non fornisce altro che una sottostima della reale letalità.
Nella fase in cui un nuovo virus emerge, inoltre, si ha un ulteriore problema, che è quello dell’attribuzione delle morti al virus stesso, problema accentuato dalla iniziale mancanza di diagnostici e dalla eventuale difficoltà logistica di ottenere la comunicazione dei decessi sospetti; il che, ancora una volta, in più di un’occasione ha condotto ad una sottostima iniziale del tasso di letalità per mancata comunicazione delle morti causate dal virus.1
Con il nuovo coronavirus cinese, sappiamo che certamente vi sono stati ritardi o addirittura omissioni nel registrare le morti probabilmente causate dal virus; possiamo quindi essere certi che, almeno inizialmente, la letalità del virus, calcolata sui dati disponibili, sarebbe risultata sottostimata.
Un ulteriore problema che può portare ad una larga sottostima della letalità reale di un virus è poi la differenza di velocità con cui si riportano nuovi casi di infezione rispetto a quella con cui si registrano i decessi; maggiore è il ritardo con cui si registrano questi ultimi, minori appariranno i morti rispetto agli infetti, minore apparirà la letalità.2
Naturalmente, può avvenire anche che inizialmente vi sia un gran numero di casi di infezione non riportati, sia perché vi possono essere molte infezioni non riconosciute come tali da un punto di vista clinico (visto che inizialmente i sintomi non sono noti con precisione), sia perché i diagnostici possono essere indisponibili, sia infine perché vi può essere un numero più o meno grande di soggetti asintomatici che non vengono diagnosticati come infetti. Nel caso di SARS-CoV2, si vede come ipotizzando che solo un terzo dei soggetti realmente infetti siano stati diagnosticati, si ottengono stime di letalità di una decina di volte diverse dal caso in cui invece si ipotizzi che solo un trentesimo dei casi reali di infezione è stato riconosciuto.3
Bene; ma al netto di tutte queste fonti di incertezza, cosa possiamo aspettarci per il nuovo coronavirus? Quanto è letale?
Partiamo innanzitutto da terreno un po’ più solido, riferendoci al “parente prossimo” del nuovo virus: il coronavirus che causò l’epidemia di SARS nel 2003-2004. Per questo virus, proprio a causa dei fattori evidenziati, la stima WHO della letalità del virus è costantemente cresciuta, fino a stabilizzarsi; questo nonostante l’iniziale sottostima dei casi di infezione dovuta alla Cina.4 Per quella epidemia, la variazione massima osservata nella stima della letalità effettuata da WHO è stata di due volte, rispetto alle stime iniziali; le stime ottenute da diversi focolai epidemici, inoltre, sono risultate largamente coincidenti.
Se l’esperienza insegna, dunque, possiamo immaginare che la stima fornita attualmente dal WHO per il nuovo coronavirus non debba cambiare moltissimo; ed il valore di due volte rientra, infatti, nell’attuale variabilità riscontrata per le stime. In definitiva, per SARS-Cov2, il valore di letalità generalmente accettato è stabile orma da circa un mese intorno al 2%, con variazioni regionali attese (letalità maggiore nel centro della crisi, a Wuhan, e relativamente minore altrove) e per classi di età e comorbidità (letalità maggiore negli anziani e nei soggetti con altre patologie).
Assumendo che questo valore resti ancora stabile o non vari di moltissimo, come nel caso della SARS, abbiamo la possibilità di paragonare la probabilità di sopravvivenza di un paziente affetto da coronavirus con quella di un paziente affetto da influenza stagionale.

Come si vede nella seguente tabella, nelle condizioni attuali e nei posti in cui il virus ha colpito, un paziente affetto da SARS-CoV2 ha circa 200 volte più probabilità di morire di uno colpito da influenza stagionale.
Qualcuno potrebbe protestare, sottolineando come la letalità al di fuori dello Hubei in Cina risulti più bassa.
Bene, sono andato a verificare le stime ottenute sia considerando solo casi esterni allo Hubei, sia correggendo per la probabile presenza di molti casi di infezione con sintomi lievi o asintomatica, non riportati.
Ecco i valori:
Il 10 febbraio, l’Imperial College di Londra ha pubblicato un valore do 0.8-0.9% per la letalità, dopo correzione per gli eventuali casi non riportati;
Il 14 febbraio, uno studio pubblicato stima la letalità, corretta per i casi non riportati, pari a 0.5-0.8%;5
Il 19 febbraio, lo Institute for Disease Modeling ha stimato la letalità allo 0.94%;
Il 21 febbraio, un ricercatore dell’Istituto per la Medicina Sociale e Preventiva dell’Università di Berna ha stimato la letalità, corretta per i casi non riportati, pari a 1.7%
Come si può notare, tutte le stime corrette per i casi non riportati di infezione variano tra 0.8 e 1.7%; non siamo tanto lontani dal 2% complessivo stimato da WHO, e comunque siamo ben al di sopra del valore assunto dall’influenza stagionale.
Il paragone, fatto in questo modo, può ingenerare molta paura; ma, per quanta attenzione possa suscitare una letalità pari a 80-200 volte quella dell’influenza stagionale, è pure possibile rilevare come la maggioranza degli altri virus considerati, inclusi altri coronavirus, siano di gran lunga più letali. Soprattutto, questa letalità implica che, dal punto di vista individuale, la probabilità media di decesso è veramente molto piccola rispetto a quella di guarigione.
Come possiamo fare per rendere la probabilità di morire per il virus ancora più piccola, praticamente nulla? Consideriamo che il nostro rischio individuale di morire per il virus è pari alla probabilità di morire se infetti (la letalità) moltiplicata per la probabilità di essere infettati:
Rischio(morte per il virus) = probabilità(infezione) X letalità(virus)
Ognuno di noi può rendere piccolo il primo fattore di questa moltiplicazione, attuando diligentemente le misure di quarantena quando richieste e di prevenzione consigliate dalle istituzioni.
I medici ed i ricercatori, d’altra parte, fornendoci la migliore assistenza ospedaliera per superare le crisi cliniche gravi e sviluppando nuovi farmaci, stanno agendo per rimpicciolire il secondo fattore.
Possiamo riuscirci: collaboriamo perché questo prodotto, alla fine, dia zero.
Bibliografia
1. Atkins KE, Wenzel NS, Ndeffo-Mbah M, Altice FL, Townsend JP, Galvani AP. Under-reporting and case fatality estimates for emerging epidemics. BMJ. 2015;350. doi:10.1136/BMJ.h1115
2. Lipsitch M, Donnelly CA, Fraser C, et al. Potential biases in estimating absolute and relative case-fatality risks during outbreaks. PLoS Negl Trop Dis. 2015;9(7):1-16. doi:10.1371/journal.pntd.0003846
3. Battegay M, Kuehl R, Tschudin-Sutter S, Hirsch HH, Widmer AF, Neher RA. 2019-novel Coronavirus (2019-nCoV): estimating the case fatality rate – a word of caution. Swiss Med Wkly. 2020;150(0506). doi:10.4414/smw.2020.20203
4. Yip PSF, Lam KF, Lau EHY, Chau PH, Tsang KW, Chao A. A comparison study of realtime fatality rates: Severe acute respiratory syndrome in Hong Kong, Singapore, Taiwan, Toronto and Beijing, China. J R Stat Soc Ser A Stat Soc. 2005;168(1):233-243. doi:10.1111/j.1467-985X.2004.00345.x
5. Jung S, Akhmetzhanov AR, Hayashi K, et al. Real-Time Estimation of the Risk of Death from Novel Coronavirus (COVID-19) Infection: Inference Using Exported Cases. J Clin Med 2020, Vol 9, Page 523. 2020;9(2):523. doi:10.3390/JCM9020523